Non ci sarà altro destino da quello
infernale, che quotidianamente ci accompagna, finché la bellezza
resterà fuori dal centro delle azioni. E finché resterà fuori, il
brutto e il male seguiteranno a contagiare i pensieri e lo spirito
degli uomini. Considerare un dovere sociale tenere al centro il
razionale, il tecnologico, l’economico e l’interesse personale, è
il compimento del brutto in quanto affermazione babelica, separazione
dall’origine, esaltazione di sé.
Qualche considerazione sulla bellezza e i limiti della conoscenza
cognitiva.
“Ogni lingua lineare è però una lingua logica; in altri termini,
agisce, per così dire, in una dimensione e si blocca dinanzi al
confine di più dimensioni” Armïn Mohler, La rivoluzione conservatrice in Germania,
1918-1932: Una guida, Napoli-Firenze, Akropolis/La Roccia di
Erec, 1990, pp. 96-97.
Il modo estetico
La bellezza quando è solo una parola,
riferisce di una categoria nella quale abbiamo posto qualcosa o
qualcuno. Quando è invece una vibrazione, reifica un universo in cui
le relazioni sono regolate prioritariamente dall’energia estetica,
dal modo estetico di concepire, intendere il mondo, il prossimo, la
realtà. La modalità estetica risiede nel pre-pensiero. Il pensiero
organizzato, interessato e politico la deturpano.
Diversamente dalla modalità etica – suo
opposto energetico – intenta ad affermare un ordine nelle
relazioni, nella realtà e nel mondo, quindi rappresentabile dalla
geometria piana, dalla fisica classica e dall’informatica, quella
estetica ha un carattere fluttuante, risente di tutto e ha il pregio
di condurci a noi stessi e a farci riconoscere la nostra vera natura,
sempre imbrattata e nascosta da strati di nozioni etiche e dei suoi
saperi analitici.
La cultura materialista in cui siamo immersi,
tende ad allontanarci dal senso della vita riducendolo al senso del
successo. Un territorio in cui la bellezza è ridotta alla parola che
allude al bello, ma non contiene il bene, e a uomini senza bellezza,
ma pieni di individualistica vanità, tanto che si è separata la
bellezza dal bene, credendo di fare scissione innocua. Una
separazione tanto profonda che li porta a deridere certe conclusioni.
Del resto, come ci racconta Lao Tsu, quando
lo stolto sente parlare per la prima volta del Tao scoppia a ridere.
Nel caso etico siamo spinti a eleggere gli
uomini a proprietari del mondo e di se stessi. In quello estetico
diviene possibile conoscere attraverso il sentire, la liberazione dal
conosciuto e la corrispondenza con il cosmo.
L’etico produce norme. L’estetico poesie.
L’etico amministra l’esistente. L’estetico
ricrea.
L’etico segue canali ereditati. L’estetico
ascolta il mondo.
Il primo usa la matematica, la statistica, gli
algoritmi. Il secondo utilizza il terzo occhio.
Uno ritiene che la conoscenza sia da acquisire,
l’altro che è già in noi.
L’etico è entro una capsula impermeabile se
non dalla norma. L’epidermide dell’estetico è sottile e vibrante
come una vibrissa.
Ideologie e relativi dogmi, differenze e
separazioni sono il basamento dell’incastellatura etica.
L’identicità degli uomini, la maschera delle forme, e ritenere
tutto espressione della vita, lo sono per la prospettiva estetica.
Per l’etico esiste l’eretico. Per
l’estetico non esiste eresia, neppure quella etica.
I computatori della vita sono meno inclini a
sfruttare le informazioni su se stessi fornite dalle emozioni. Sono
più stabili ed equilibrati, ma impediti a cambiare sembianze, a
divenire altro da sé, a sfruttare la contemplazione per conoscere e
la meditazione come medicina. A vedere e muoversi secondo bellezza,
non è per loro previsto.
Agli esseri estetici è come se piacesse il
rischio. Puntare tutto sulla bellezza richiede fanciullezza,
sconsideratezza, inconsapevolezza delle conseguenze e fede. Visti con
ottica etica, sembrano coraggiosi e avventati. Al contrario, quelli
etici, visti con ottica estetica, che si muovono con accortezza, non
sono che pusillanimi.
Un po’ come per i materialisti che non
sospettano neppure che i loro attrezzi non servono per lavorare al
banco alchemico, l’uomo etico, logico, razionalista, concreto, non
ha modo di concepire il mondo se non nella sua espressione storica. A
lui piace fermarsi al dito. Della luna non sa che farsene.
Concentrato sui particolari da mettere e tenere in ordine non la
vede.
La bellezza è anche una modalità di ricerca e
una discriminante. Essa si rivela ascoltando, seppur nascosta da
sembianze che non la evidenziano. Quando la bellezza accade, quando è
centrale nelle relazioni, si realizza quella realtà estatica sempre
cercata. La sola che conta, in quanto la sola in grado di dare senso
alla vita, in quanto benessere intimo e relazionale, in quanto
premessa necessaria alla benevolenza e alla gratitudine
incondizionata.
Il senso della vita concepito, soddisfatto
ed esaurito in ambito etico-amministrativo, allude a titoli, denari,
dialettica, saperi cognitivi, vita regolata dal diritto e dimenticata
dalla natura, cultura intellettual-tecnicistica.
Differenze formali di senso, ciò che conta
riguarda la compagnia del baratro nero, che accompagna la modalità
etica. Un abisso in cui il rischio di cadere corrisponde alla presa
di coscienza di avere dedicato l’attenzione a confondere le
autoreferenziali infrastrutture per verità.
Essere coinvolti in una caduta della bellezza
nella relazione, ossia al tradimento spirituale, arresta i processi
vitali-creativi. Essere forzatamente sottratti dalla bellezza è
un’esperienza grave, un crollo emozionale. È quanto accade nella
prevaricazione della norma, della sua limitatezza, nel campo libero e
infinito dell’amore.
Ma le cose si muovono, i ruoli si invertono.
Tendiamo a passare da una affermazione al suo opposto, e a tutti i
grigi intermedi, in funzione di esigenze e circostanze più forti dei
nostri valori e della nostra disciplina e stabilità. Nessun uomo è
un tipo puro, e chi lo è più degli altri è tanto più
specialisticamente forte, quanto più olisticamente vulnerabile se
opportunamente toccato. Anche se – in senso lato – il nostro
segno zodiacale e ascendente ci spingeranno sempre verso la loro
concezione delle cose, tutti corrispondiamo alla verità dell’yin e
yang, ovvero in ognuno c’è parte dell’altro. L’opposto che
fuggiamo è il primo generatore di quanto desideriamo essere.
Secondo bellezza
Il bello è tale in quanto ci muove. Esso allude all’eros,
all’energia vitale, tendenzialmente fievole nel replicativo
burocrate ed effervescente nel creativo sentire. Esso è simbolo
sublimante e tocca il profondo dell’umano, fino all’origine, fino
all’archetipo comune e condiviso. Anche per questa sua abissale e
inestinguibile dimora, esso risulta sostanzialmente inspiegabile
dalla modalità espressiva della dialettica logico-razionale.
Il bello avviene, ed è percepito in noi. Ciò lo rende
inequivocabilmente vero, mai accompagnato dall’esigenza di una
qualsivoglia egida scientifica. Esso accade quando qualcuno o
qualcosa è pertinente a qualche nostra esigenza di completezza.
Questa può essere occulta a noi stessi o evidente. Dipende dal
gradiente di consapevolezza disponibile su noi stessi e nel momento.
L’esplosione del senso di bellezza ci avverte con un’emozione
magnetica nei confronti della parte mancante e risucchiante,
totalitaria, e più forte di quella di fondo che corrisponde alla
cosiddetta identità di noi stessi. All’opposto, il brutto ci
informa di cosa ci disturba.
Avvedersi quindi del valore dell’unità negli opposti è liberarsi
di un laccio della catena di forza culturale che ci impone pensieri e
azioni moralistiche ed egoistiche che nulla hanno a che fare con noi
stessi, che tutto hanno a che vedere con modelli a noi esterni. E che
mai divengono scuola evolutiva ma, al contrario, ci trattengono nello
status quo dominato da quanto i cattolici chiamano vizi capitali,
ovvero, sempre secondo questi, fuori dalla grazia di Dio.
È opportuno considerare che il bello ci rapisce in quanto emozione
di beatitudine, sospensione della storia e del pensiero, e
dissoluzione dell’io separatore, almeno nei confronti dell’oggetto
risonante, quindi paradisiaca, estatica.
Nel tempo della
sua durata avvertiamo benessere, la storia che ci circonda si
obnubila silente, il pensiero cessa di rutilare, l’unione con
l’oggetto risonante, sia esso un’idea creativa, una persona, una
forma, eccetera, si compie, tanto da avvertire il diritto di
esclusività e proprietà/appartenenza. In quel tempo, istantaneo
come nell’eureka di una scoperta, nella presa di coscienza, nel
momento della visione e dell’avvento della composizione della
costellazione concettuale rivelatrice di un nuovo – per noi –
orizzonte del mondo e, per eccellenza, nell’orgasmo; oppure
perdurante come nell’innamoramento, nella serenità dell’amore
incondizionato, nel sentimento materno, le pene e la loro memoria si
scompongono nell’oceano estatico, che i cattolici chiamerebbero
paradisiaco o, ancora, grazia di Dio.
È necessario osservare che nel bello è implicito il bene. I
concetti di estasi e di paradiso non sarebbero altro che grossolane
rappresentazioni di richiami alla migliore condizione di vita. Che va
dalla salute, ai buoni sentimenti e alla miglior disponibilità di
forza per la gestione degli inconvenienti della vita, nonché alla
miglior disponibilità nei confronti dell’autoeducazione alla
migliore invulnerabilità. Un corso evolutivo che tende a realizzarsi
in modo proporzionale alla decrescita di importanza personale e ai
comportamenti dettati da questa e dal suo implicito motto orgoglioso.
E, viceversa, proporzionalmente alla disponibilità fenomenologica,
ovvero alla spersonalizzazione egoica degli eventi.
(Un culmine culturale questo, che permetterebbe di gettare nel
fuoco le fandonie politiche del momento, dalla cancellazione della
cultura, alla libertaria scelta del genere sessuale, al politicamente
corretto, al pensiero unico, alla famiglia di piacere, alla madre da
mercato e alla prole da menu, alle quote rosa, al sostenibile,
all’impatto zero, all’economia circolare, all’esportazione di
democrazia, all’ossessione dell’inclusività, al culto
tecnologico e, più ampiamente, a perpetuare la storia come storia di
conflitti, dagli infrapersonali, passando da quelli interpersonali e
ideologici, fino a quelli economico-geoegemonici).
La percezione di bellezza allude altresì al senso del sacro. Si può
infatti osservare che il sacro che siamo disponibili a riconoscere
come tale è solo e soltanto quello che ci fa avvertire l’emozione
della corrispondenza e dell’appartenenza. In questo modo, perfino
la squadra del cuore è sacra.
Nel senso del sacro è presente un’estensione di noi stessi, come è
sostanzialmente concepita infatti qualunque nostra funzionale parte
del corpo o dell’immagine della nostra identità. Quale pianista è
disposto a sacrificare un mignolo? Chi è disposto a svelare
frivolarmente i propri scheletri nell’armadio? Ma sarebbe
sufficiente chiedersi quale uomo lo sarebbe se non per qualcosa di
ulteriormente sacro, per esempio un figlio – a sua volta nostra
estensione – una fede o un giuramento.
Secondo bruttezza
Specularmente al bello che implica il bene, il brutto è simbolo del
male. Da non intendere in senso moralistico ma energetico-evolutivo.
Secondo questa concezione si può riconoscere l’origine e il
destino dell’idea che l’uomo sia sulla terra per riunirsi
all’origine. Non solo, ma anche che il suo operare etico ha valore
solo e soltanto se compiuto attraverso la consapevolezza che ognuno
di noi è identico ovvero, con la consapevolezza che le
differenze storico-biografiche sono spiritualmente solo formali e
circostanziali, che operare per sé non ha alcun potere sottile nei
confronti dell’evoluzione dell’umanità, nei confronti del
superamento della gogna materialista.
“La filosofia critica di Nietzsche porta dunque a compimento
l’impresa «semi-abortita» di Kant: anche la ragion pratica, così
come la ragion pura, non è in grado, per propria essenza, di offrire
una risposta alle «domande ultime»; tutti i giudizi di valore,
tutte le «morali», tutte le «verità» sono relative, non hanno
alcun diritto «razionale» all’assolutezza, a una validità
universale. Ciò che qui viene però «storicamente» annientato è
appunto la «Ragione», in quanto logos assolutizzato, della
tradizione occidentale giudeo-cristiana”. Giorgio Locchi, Sul senso della storia, Padova, Ar, 2016, p.
29.
Non è quindi improprio riconoscere in che termini il brutto
rappresenti ed esprima il lato oscuro che insorge in noi, come uno
stupro del mondo ideale anelato, come ci spettasse di diritto
individuale. Una fantomatica meta se superstiziosa pretesa egoica, ma
utopia concretizzabile quando esso è già nella nostra visione.
Progetto fallimentare se acquisito per legge numerata o moralistica,
ma di successo se ricreato da noi stessi. Nessun tavolo esce dalle
nostre mani se di esso non abbiamo un’idea. E nessun tavolo è il
nostro tavolo, se l’idea da cui proviene è stata prima di
altri. La forza di volontà necessaria ad ogni creazione, non
riferisce un dovere ma un sentire, senza il quale non è che un
braccio di ferro perdente, contro forze profonde e superiori a quelle
egoiche e superficiali.
È così che il brutto implica l’inferno. Ovvero quella condizione
senza fuga dai tiranni, da ciò che non abbiamo risolto, dalle
evoluzioni che non abbiamo percorso. Il brutto è ciò che non
vogliamo, ciò che fuggiamo di noi, ciò che sosteniamo non ci
rappresenta. È il pus delle nostre infezioni, di quanto non siamo
stati capaci di accettare di noi, dell’ottusa volontà di affermare
di essere altro, di ferite tenute aperte dal rancore e dal desiderio
di vendetta. L’assedio del brutto è, infine, l’assenza del
processo di individuazione, ma la latente presenza del thanatos e
della prosa della vita, in sostituzione del formicolare dell’eros,
che ne è invece, la lirica.
L’esperienza non è trasmissibile
La bellezza, come tutte le esperienze, non è logico-razionalmente
trasmissibile. Essa corre su ponti emozionali, gli stessi dei nostri
passi evolutivi, in occasione dei quali avvertiamo la conoscenza del
Sé.
La gabbia logico-razionale che ci contiene a causa della nostra
inconsapevolezza di essa, è a sua volta un’emozione, ovvero una
capsula biografico-autoreferenziale con la quale concepiamo il mondo.
Con essa, ci dicono gli esperti, possiamo spegnere d’un colpo
dilemmi e incertezze. Vivendo al suo interno, siamo inconsapevolmente
ma scientisticamente certi, che a mezzo della dialettica,
dell’erudizione e dell’eloquenza, possiamo trasmettere
l’esperienza. Se così fosse, saremmo saggi da millenni, o potremmo
imparare a sciare dopo l’opportuna spiegazione. Per niente!
Ricreare è necessario.
L’impressione della trasmissibilità dell’esperienza appare dura
da dissolvere soprattutto perché estranei alle dinamiche della
comunicazione. Essa pare realizzarsi quando gli interlocutori
dispongono di pari esperienza, utilizzano il medesimo linguaggio,
conoscono e impiegano le stesse accezione e lo stesso gergo,
riconoscono in modo condiviso il significato delle allusioni, delle
allegorie e delle metafore, e hanno il medesimo scopo. Allora avviene
la comunicazione ma non la trasmissione di esperienza. Al contrario
quando quei requisiti mancano, anche uno soltanto, anche la
comunicazione non avviene e il suo posto è preso dall’equivoco. Da
certa letteratura esoterica prendiamo la formula che siamo universi
diversi. Questa allude che i vissuti delle persone possono
facilmente impedire la comunicazione.
Secondo logica
Così come l’indagine
analitico-logico-razionale-meccanicista-positivista non può che
ricamare dialettiche intorno al concetto di bellezza, senza mai
coglierne il cuore, è invece la lettura esoterico-filosofica,
evincibile dalla fisica quantistica – e da tutte le tradizioni
sapienziali del mondo – a evidenziare e permettere la
consapevolezza dei limiti degli strumenti a disposizione sul banco
dell’officina materialista. Cioè la loro inettitudine, a
maneggiare le cose del discorso estetico-vibrazionale, quali
sono la conoscenza emozionale, la natura della cosiddetta magia, il
flusso energetico informazionale dell’oracolo e quello del
miracolo. Ovvero il potere delle parole e il suo grimaldello
dell’accredito o, la verità nel discorso e il pensiero creatore.
Nel complesso, tutti elementi di una prospettiva utile per
riconosce che la realtà è nella relazione. Ovvero, secondo Gregory
Bateson, nella mente che avviene al cospetto di qualcuno o qualcosa.
Pinze e trapani, non solo sono inadeguati a operare tra gli argomenti
della conoscenza estetica, ma l’incaponimento dei suoi operatori,
nel persistere ad utilizzarli e a restare nel flusso del processo
logico-analitico al fine di raggiungere la conoscenza, li allontana
invece di avvicinarli alla natura del mistero che, impettiti,
vorrebbero svelare.
E la sindrome scientista, ovvero quella che impone di credere che la
sola e vera conoscenza avvenga a mezzo della scienza, che oltre ad
essa nulla è valido, e ciò che essa non riconosce, non esiste.
La realtà concepita come ente oggettivo,
composto da parti che rispondono a leggi e scomponibile fin dove la
tecnologia lo permette, identica per tutti, impone e deriva dall’idea
di matrice cartesiana e newtoniana, illuminista e
scientifico-materialista, implica un uomo ridotto a macchina,
comporta una lettura e un’indagine esclusivamente appoggiata al
piano logico-razionale, in quanto così ritiene di restare entro
un’interpretazione impeccabile, autentica e definitiva, oggettiva
appunto, con il potere di scalzare quanto a essa non è confacente. È
una realtà ridotta a materia, allo stato misurabile e
quantificabile. Una realtà umanisticamente mortificante, quando non
alienante.
La logica non è il mondo
Ma la narrazione logico-razionale è
incompleta. Lo si può osservare anche attraverso questo articolo:
tutto ciò che ho espresso sarà inteso come lo intendo io? Ciò che
è scritto significherà sempre qualcosa per chiunque?
Dentro la camicia di forza meccanicista, il suo
linguaggio non è idoneo per raccontare la realtà che non sia quella
amministrativa. Se la logica esaurisse il mondo, il bello non
esisterebbe e così ogni altra emozione. Senza emozione – cioè
come dalla sua etimologia – non c’è vita.
“L’immagine tridimensionale della storia, invece, è nuova, e non
ha ancora plasmato un linguaggio «comune»”. Giorgio Locchi, Sul senso della storia, Padova, Ar, 2016, p.
34.
Chiusi nell’incantesimo dell’arroganza babelico-razionalista, non
ci si avvede che è la stessa domanda/ricerca primaria, a generare il
mistero. La pretesa scientista di risoluzione di tutto, sospinta dal
suo conosciuto cognitivo, dalle sue strutture ordinate, non è in
grado di dare risposta alle questioni ontologico-esistenziali.
Tuttavia ogni uomo qualunque è in grado di conoscere
esteticamente ciò che anche la scienza materialista, in questi
ultimi decenni, sta arrivando ad ammettere. Ovvero, l’esistenza e
la verità di quanto il suo sistema di microscopi e vetrini – la
cui autoreferenzialità è spesso taciuta, negata o maldestramente
inconsapevole – non è in grado di spiegare.
Totalitaristicamente rapiti dall’emozione
della dialettica logico-meccanicista, quale unica rivelatrice del
mondo, il mistero non si svela a noi. Ed è proprio emancipandosene
che possiamo esserlo il mistero, che possiamo dismettere l’insistente
modalità di conoscenza cognitiva e riconoscere il potere di quella
estetica. Basterebbe per riconoscere l’autoreferenzialità
dell’assolutismo della logica, come del resto anche qualunque
paradosso, senza neppure dover ricorrere a Kurt Gödel, per
riconoscere i limiti della conoscenza attraverso la logica, dalla
quale scaturisce il pericoloso – per la conoscenza e le relazioni –
concetto di realtà oggettiva.
La conoscenza estetica ci relaziona al mondo con i cinque sensi
materiali e con il sesto vibrazionale. Come i primi possono essere
materialmente zittiti, togliendoci per esempio il sapore di un cibo,
così il terzo occhio è sempre dormiente per coloro che non si sono
ancora ripuliti dall’inquinamento della messe di dati della
conoscenza cognitiva o superficiale. Terzo occhio, le cui
informazioni divengono disponibili alla coscienza, solo dopo un’altra
emancipazione, quella nei confronti dell’esperienza pregressa,
delle emozioni e dei sentimenti, quali informatori/creatori della
realtà.
Divenire, meglio, ritornare la vibrissa ricettiva e di conoscenza che
già siamo è recuperare l’ancestrale che vive in noi e fare della
vita la straordinaria esperienza di bellezza che è, normalmente,
affogata in questioni che la impediscono, fino a mutarla in
sofferenza e malattia. È in questo il senso di chi sostiene che
siamo nati per il paradiso e viviamo nell’inferno.
Lorenzo Merlo